CONTRIBUTI

IL BANCO DI GEROLAMO PRIULI

nota di Luciano Pezzolo


Vittore Carpaccio – La vocazione di San Matteo patrono dei banchieri (@Scuola Dalmata S. Giorgio Venezia)

Quel giorno, era lunedì 15 marzo 1507, a Rialto i veneziani potevano udire, tra i consueti rumori e il vociare di facchini, negozianti, mercanti e i loro clienti, un suono di strumenti musicali, pifferi e tamburi che, come accedeva solitamente, segnava un evento che interessava la città. Tutti videro avvicinarsi un corteo, dove prevaleva il color scarlatto delle vesti dei patrizi, che si dirigeva verso il porticato della chiesa di San Giacometto. I personaggi che sfilavano portavano tra i più bei nomi dell’aristocrazia marciana: in testa Gerolamo Priuli, figlio di Lorenzo e nipote del fu Piero, accompagnato dallo zio Alvise, e poi il procuratore Domenico Trevisan, che in più occasioni aveva ricoperto la carica di ambasciatore e consigliere nei più prestigiosi organi della Repubblica, Lorenzo Loredan, il primogenito dell’attuale doge Leonardo, Leonardo Mocenigo, figlio dello scomparso doge Giovanni, Piero Balbi, anch’egli abituale frequentatore dei massimi consessi governativi, e ancora Alvise Venier, Alvise Molin, Leonardo Grimani, il potente Antonio Tron, Angelo Trevisan, il pronipote dell’omonimo doge Francesco Foscari, «et assa’ altri patricii et assa’ parenti», nota nei sui Diari il patrizio Marin Sanudo. Il corteo doveva dare l’immagine che non solo la parentela Priuli sosteneva l’impresa di Gerolamo, ma che essa era palesemente sostenuta da un folto schieramento di patrizi tra i più eminenti, per ricchezza e per prestigio, della città. Ma perché questo spiegamento di nobili? I veneziani ebbero la risposta di lì a poco, quando Gerolamo Priuli si avvicinò a un tavolo, collocato di fronte a San Giacometto, dove troneggiavano 60.000 ducati in moneta pregiata (pari a oltre 210 chili di oro). Si stava inaugurando una nuova banca.

Quello di Gerolamo era il terzo banco che si aggiungeva ad altri due che operavano a Rialto; i titolari erano Maffeo Agostini, appartenente a una famiglia cittadinesca che commerciava in metalli preziosi e che aveva fondato il proprio banco nel 1493, e Alvise Pisani, la cui banca riuscì ad attraversare quei difficili anni con coraggio e grande capacità. Non dobbiamo pensare che la banca a Venezia svolgesse le analoghe funzioni di un moderno istituto di credito. I banchi veneziani erano denominati de scritta, proprio perché avrebbero dovuto limitarsi a svolgere operazioni di giroconto per i propri clienti. In definitiva, chi depositava denaro presso i banchi creava un conto corrente col quale poteva pagare o ricevere somme da altri clienti dei banchi semplicemente ordinandone il trasferimento. Ciò permetteva di evitare l’uso di moneta metallica così da facilitare notevolmente le transazioni. Il credito non era contemplato tra le attività del banchiere. Il suo vantaggio consisteva in una modesta percentuale sulle somme maneggiate. Tutto questo in teoria: in pratica le cose andavano piuttosto diversamente. Sebbene la legge vietasse ai banchieri di fornire credito, vale a dire che alle somme registrate nei libri della banca dovesse corrispondere perfettamente l’ammontare dei depositi dei clienti, era inevitabile che alla clientela scelta venissero concessi scoperti. Ed era altrettanto inevitabile che il banchiere fosse fortemente tentato dall’impiegare il denaro dei depositanti per speculazioni più o meno avventate. Certo, egli era obbligato a depositare una cauzione presso gli uffici governativi che salvaguardasse la sua buona condotta, e a presentare dei garanti che si facessero carico di eventuali perdite. Priuli, per esempio, aveva versato ai Governatori delle Entrate 40.000 ducati, come un banditore aveva solennemente proclamato sulle scale di Rialto, e suo padre si era addossato l’intero ammontare. Il prestigio della famiglia, le garanzie offerte al governo e dei bei sacchi di monete dovevano rassicurare i clienti della solidità della banca.

Tuttavia il mestiere di banchiere era sottoposto più di ogni altro all’alea della fortuna. Elia Lattes, uno studioso del XIX secolo, ha affermato che nella storia di Venezia su 103 banche appena sette riuscirono a evitare il fallimento. Su basi più solide, Reinhold Mueller ha contato una cinquantina di banche tra 1350 e 1500, poche delle quali non incorsero in una fine ingloriosa. Purtroppo per Gerolamo, la sua impresa non rappresentò un’eccezione. Il 1507 fu l’ultimo anno di pace, che sarà seguito da un lungo periodo in cui Venezia dovette affrontare pesanti impegni bellici, culminati nella catastrofica sconfitta di Agnadello (14 maggio 1509) e nella altalenante riconquista della Terraferma completata nel 1517. La notizia della sconfitta contro l’esercito francese, che in breve tempo fece crollare quasi completamente il Dominio da terra, seminò il panico in laguna. Il nostro Gerolamo punteggia le pagine dei suoi diari, che sono arrivati sino a noi, con annotazioni amare e moraleggianti, lanciando i suoi strali contro i cattivi costumi dei suoi concittadini, e considera altresì la sua posizione di banchiere. Ora, dei non molti vantaggi che la guerra comporta, senza dubbio una buona parte va a beneficio di coloro che dispongono e sono in grado di maneggiare grandi somme di denaro. La situazione a Venezia, tuttavia, non alimentava favorevoli prospettive. Priuli lavorava soprattutto con mercanti, Rialto era il suo mondo, un mondo che era stato sconquassato dagli echi dei cannoni che tuonavano sulle sponde della laguna, dalla generale insicurezza dei traffici e di un futuro che appariva cupo, nonché dalla forte domanda fiscale del governo. «Mi atrovava molto male contento havere prexo simil charigo in simil chativi tempi. Ma veramente mai alcuni havereia pensato una tanta jactura et ruyna veneta!», si lamenterà nel novembre del 1509. Insomma, non era certo un bel momento, tanto che nel febbraio dell’anno successivo annoterà amaramente come, appena trentacinquenne, egli fosse diventato canuto per i «pensieri» e i «fastidii». Nonostante i brontolamenti e i capelli imbiancati, Gerolamo si dimostrò un fedele cittadino e un buon patrizio. Come banchiere, assieme ad altri suoi colleghi, prestò in varie occasioni denaro al governo, cui peraltro apparteneva, e come nobile versò 1000 ducati a titolo di prestito per ottenere l’accesso in Senato finché non gli fosse stata restituita la somma («io m’atrovo nel Senato in gratia della borsa mia», scriverà con una certa autoironia nel novembre del 1510). Le difficoltà erano enormi, certo, ma per Gerolamo rimaneva ancora qualche risorsa per ottenere un seggio nel prestigioso organismo della Repubblica.

La sua banca però non riuscì a superare indenne la tempesta. La mattina del 18 novembre 1513 i veneziani che si trovavano a Rialto assistettero a un duro alterco tra Gerolamo e alcuni suoi clienti, che volevano ritirare i loro denari. Il più acceso era il nobile Francesco Contarini del fu Andrea, il quale pretendeva avere i soldi depositati a nome di sua sorella, ma Priuli «non ge li voleva dar portandosi bestialmente», ci riferisce Sanudo. Ovvio che la voce della dura resistenza del banchiere agitasse gli animi dei clienti. L’eco del trambusto giunse sino a Palazzo ducale e allarmò il governo, che inviò immediatamente tre nobili, tra cui Marco Molin, uno dei capi del Consiglio dei Dieci, per sedare gli animi. I tre «feno star tutti in driedo» e annunciarono che ognuno avrebbe ricevuto il proprio denaro, il che «aquietò molto la furia». La questione fu oggetto di discussione nel Consiglio dei Dieci, dove sedeva Lorenzo, il padre di Gerolamo, il quale perorò la causa del figlio suggerendo che la Signoria versasse il denaro che doveva al banchiere. Dal canto loro, le autorità decisero di controllare i conti del banco ed eventualmente di offrire qualche appoggio. Ma ciò evidentemente non risultò sufficiente, poiché il 2 dicembre 1513 Priuli dovette dichiarare fallimento. Probabilmente la mobilitazione di denaro in favore del governo aveva drenato troppe risorse, ma l’elemento decisivo fu la decisione delle autorità di sospendere il pagamento degli interessi sui titoli del debito pubblico. Priuli così si vide svanire ben 10.000 ducati, una cifra enorme, che corrispondeva pressappoco all’ammontare del salario annuo di 200 maestri muratori. I crediti che egli vantava dal governo, comunque, poterono essere traslati ai suoi creditori e, tutto considerato, il suo debito non risultò affatto drammatico. I suoi creditori furono rassicurati dal governo, che di fatto rappresentava il debitore ultimo in questa occasione.

Gabriele Bella – Il Banco Giro a Rialto (@Pinacoteca Querini Stampalia Venezia)

La vicenda di Gerolamo Priuli ci mostra come per i veneziani la funzione bancaria non fosse disgiunta dalla tradizionale attività mercantile e come fosse soprattutto un affare in cui l’intera famiglia – verrebbe da dire il clan stesso – fosse coinvolta. Ci conferma, ancora una volta, che la fiducia si basava su elementi volatili, una diceria, una notizia non confermata, un episodio, e che bastava ben poco perché il panico si diffondesse e travolgesse i banchieri. Nello stesso tempo, il governo esercitava uno stretto controllo, ben conscio che a San Giacometto non agivano unicamente dei privati che trasferivano denaro con un solo tratto di penna.  Il ruolo dei banchieri di scritta nel mercato veneziano era fondamentale per far girare denaro senza usare moneta e per tenerlo al sicuro. Quando una serie di rovesci condusse il governo a decretare la fine dei banchi, si creò un pericoloso vuoto, che fu coperto nel 1587 dal Banco della piazza di Rialto, gestito direttamente dallo Stato che assunse pienamente le funzioni dei precedenti istituti privati. Nel 1637 fu assorbito dal Banco Giro, istituito in via transitoria nel 1619 ma successivamente stabilizzato e che, come si vede tuttora a Rialto, rappresentò uno dei pilastri del sistema finanziario ed economico veneziano sino alla fine della Repubblica.

PER SAPERNE DI PIU’:

Importanti pagine sui banchieri sono state dedicate da F. Lane, Storia di Venezia (Einaudi, Torino, 1978; paperback 1991), e da un suo allievo, R. C. Mueller, The Venetian Money Market. Banks, Panics, and the Public Debt, 1200-1500 (Baltimore 1997; paperback 2019). Per chi volesse affrontare direttamente alcune fonti, i 58 volumi dei Diarii (editi a Venezia dalla Deputazione veneta di storia patria tra il 1879 e il 1902) di Marin Sanudo, che coprono il periodo dal 1496 al 1533, forniscono uno straordinario quadro della città e dell’enorme quantità di notizie che giungevano da ogni parte del mondo allora conosciuto; più limitati ma altrettanto importanti sono i Diari di Gerolamo Priuli, i cui primi quattro volumi sono stati pubblicati (Lapi e poi Zanichelli, Città di Castello e Bologna, 1912-38), mentre rimangono ancora inediti gli ultimi due volumi, conservati presso la Biblioteca del Civico Museo Correr di Venezia.


dai diari di Marin Sanudo


CC-BY-NC-ND

Luciano Pezzolo per Progetto Rialto is licensed under a Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivatives 4.0 International license.

Lascia un commento

avatar
  Subscribe  
Notificami