CONTRIBUTI

LA RAFFINAZIONE DELLO ZUCCHERO A VENEZIA CON UN RICORDO DI TITO CANAL*

nota di Lorenzo Lazzarini**


In un giorno di primavera dei primi anni 70’ del secolo scorso, troppo lontano non solo per ricordare il mese esatto, ma neanche l’anno, Ernesto Canal, detto “Tito”, compianto ispettore onorario della Soprintendenza Archeologica del Veneto, venne a trovarmi al Laboratorio Scientifico della Soprintendenza alle Gallerie di Venezia, allora situato nella “Casetta del Prete” della Chiesa di San Gregorio alla Salute, dove prestavo la mia opera di chimico applicato al restauro. Come spesso faceva, aveva portato con sé una borsa contenente frammenti di materiali vari, soprattutto ceramici, recuperati dalle sue (già allora decennali) ricerche di archeologia lagunare. Ricordo che aspettavo sempre con grande curiosità queste sue visite, e il “clou” era proprio il momento in cui estraeva dalle sue borse strani oggetti, a lui del tutto nuovi e incogniti, che mi sottoponeva per avere informazioni, idee, suggerimenti, ecc. Sapeva benissimo che io, pur essendo un cultore della storia materiale in generale, della veneziana in particolare, non ero quasi mai in grado di rispondere ai suoi quesiti, ma la sua fede nella scienza, specie in quella chimica, era tale (Tito aveva, tra l’altro, un suo laboratorio artigiano di galvanica) che pensava come anche semplici analisi chimiche quali-quantitative, o esami microscopici superficiali potessero risolvere i problemi di provenienza, o tecnologici di fabbricazione e restauro, che l’avrebbero aiutato a datare e conservare adeguatamente gli oggetti ritrovati. Ebbene, quel giorno Tito estrasse uno strano vaso ceramico, perfettamente conico, alto una trentina di centimetri, con un diametro alla bocca di una ventina, e con l’apice forato. Sia lui che io pensammo che potesse trattarsi di un supporto, non tanto vecchio, per una qualche filtrazione di uso industriale da effettuare con filtri cartacei o di stoffa applicati al suo interno, ma non riuscimmo a farci un’idea di quale miscela solido-liquido potesse servire a separare. Ci lasciammo insoddisfatti con l’impegno di continuare a pensare alle possibili funzioni di quell’oggetto misterioso che, se ricordo bene, Tito aveva ritrovato affiorante in un giorno invernale di bassa marea presso i resti dell’Argine di Intestadura a Fusina. Tali resti in origine corrispondevano a dei veri e propri cassoni lignei di colmata riempiti dai rifiuti solidi prodotti a Venezia a partire dagli anni 20 del Trecento, lì convogliati e mescolati a terra per deviare le acque dei rami Oriago e Bottenigo del Brenta. Questo luogo era da lui frequentato assiduamente in quanto restituiva di continuo testimonianze piccole, ma importantissime della vita quotidiana di Venezia dal periodo tardo-medievale sino a tutto l’Ottocento. In quello stesso luogo vi aveva trovato successivamente numerosi altri frammenti degli stessi coni (fig.1).    

Fig.1 – forme da zucchero intere e frammentarie recuperate da Tito Canal dall’argine di Intestadura di Fusina (da Canal et al., Padusa 1976).

Il mistero del “cono forato”, come lo chiamammo, durò parecchio tempo, almeno un paio di anni, fino a quando un giorno sfogliando un prezioso libro ancora fresco di stampa, “Le associazioni di mestiere nella Repubblica Veneta (vittuaria, farmacia, medicina”, di Giovanni Marangoni, uscito nel 1974 (Filippi Editore, Venezia), mi imbattei nella riproduzione della Tavola VIII del Grevenbroch (G. Grevenbroch, Gli abiti dei Veneziani di quasi ogni età con diligenza raccolti e dipinti nel sec. XVIII. Museo Correr, Venezia, vol.3°) che raffigurava i “raffinatori de zuccari” nella quale comparivano batterie di coni del tutto simili al nostro, che servivano quindi a raffinare lo zucchero (fig.2). Fu una vera e propria rivelazione che dette inizio a una ricerca effettuata da vari amici e studiosi in biblioteche e archivi, a raccogliere dati su questa redditizia attività veneziana ai più del tutto sconosciuta (una nota venne pubblicata da Canal et al. nella rivista “Padusa” NN.1-4, 1976). 


Fig.2: disegno acquarellato del Grevenbroch dei “raffinatori de zuccaro”, dove si nota a destra il “caglieron” sul fuoco per la concentrazione della melassa, che viene filtrata (con i teli che si notano dietro i due operai,) e poi versata nelle forme, sulle quali viene poi stesa l’argilla bianca per la raffinazione (da Marangoni, Tav. VIII).

Imparammo così che i vasi conici erano chiamati “forme da zucchero”, e altro non erano se non dei veri e propri “cristallizzatori” nei quali, tappato con uno stoppino il foro all’apice, si versava la melassa ottenuta dalla “spremitura” della canna, un liquido di seguito concentrato mediante cottura, molto viscoso e colorato di marrone col quale, una volta filtrato con teli, si riempivano fino a circa tre-quarti dell’altezza le forme poste con la punta in basso entro piedestalli multipli collocati in ambienti tranquilli: è l’operazione che sta facendo il raffinatore di destra in fig.2. Dopo un certo lasso di tempo, quando il liquido diventava ancor più viscoso per ulteriore evaporazione dell’acqua, vi veniva steso sopra uno strato di argilla bianca, leggermente bagnata (è ciò che fa il reffinatore di sinistra in fig.2), che con il suo alto potere adsorbente e grande superficie specifica, assorbiva e tratteneva in sé le sostanze organiche pigmentanti la melassa depurando così lo zucchero, che raffinato e solidificato bianco, andava a formare i “pani” poi messi in commercio. Venimmo anche a conoscenza che altri frammenti di grandi vasi cilindrici, invetriati all’interno, ritrovati spesso assieme alle forme, e che pensavamo contenitori da olive, o da frutta sciroppata, erano invece denominati “cantarelli” e destinati a raccogliere l’eventuale melassa liquida che poteva rimanere non cristallizzata sul fondo, o ai lati delle forme, melassa che sarebbe poi stata riciclata per un’altra raffinazione. Questi vasi venivano adoperati per l’ottenimento di singoli pani di zucchero (figg.3, 4).

Fig.3: Una forma inserita in un cantarello (da Canal et al., Padusa 1976).
Fig.4: Sezioni di forme e del cantarello di cui alla fig. 3 (da Canal et al., Padusa 1976).

Lo studio di quanto riportato nell’Enciclopedie di Diderot e d’Alembert (Parigi 1758-80, cui si rimanda per ulteriori informazioni), servì a fornire altri dettagli tecnici, mentre fonti come gli scritti del Manadri (Basilea,1535), del Bresc (Palermo, 1973) e Falsone (Trapani, 1974) per lo zucchero siciliano, oltre che del Cecchetti (Venezia, 1883), del Molmenti (Rist. Trieste, 1963), e del Tassini (Venezia, 1970), integrate da ricerche condotte nell’Archivio di Stato di Venezia (specie nei Capitoli delle Arti Veneziane, cod. “Giustizia Vecchia”), ci fornirono le notizie storiche essenziali sulla fortuna dello zucchero veneziano nei secoli (su cui maggiori informazioni nel già citato studio di Canal et al.). Venimmo così a conoscenza che lo zucchero fu tra le merci più costose che Venezia importò dal Levante sin dal Medioevo (la sua prima menzione è in uno statuto del 1° giugno 1229 del doge Jacopo Tiepolo), e dalla Sicilia (dove il toponimo “trappeto” frequente nella parte occidentale dell’isola testimonia tuttora di un’antica attività di raffinazione). Era soprattutto dall’Egitto, dalla Siria e da Creta che arrivava in laguna zucchero in polvere e in pani, poi in gran parte esportato in paesi del Nord Europa dove era usato, come a Venezia, soprattutto quale farmaco (componente di sciroppi e pastiglie) per le malattie di petto. Ne conosciamo i nomi di vari tipi: il “mucara”, ritenuto il migliore, e il “bambillonia”, ambedue di ignota provenienza, il “damaschino” e il “medera” che ci fanno supporre prodotti a Damasco e nell’isola di Madera, il “cucharo di Candia” e di Cipro. Esistevano inoltre varietà aromatizzate con essenze floreali, il “rosato” e “violato”, o con spezie come il “cinciber” (zenzero), o con oli di mandorla e resina di pino, i “pineti” menzionati negli statuti degli Speziali. Il Tassini, citando “Il manuale ad uso del Forestiere” del Fontana (che riporta una legge del 13 agosto del 1334 imponente un dazio del 5% alle galee da commercio che portavano a Venezia lo zucchero cretese di Candia), ricorda che nel Trecento Venezia vendeva zucchero alle città lombarde per la ragguardevole somma di 85000 ducati all’anno. Sono stati questi floridi affari a convincere i veneziani a piantare le loro prime raffinerie, probabilmente già nella seconda metà del XV secolo: secondo il Marangoni infatti, la presenza di raffinatori è attestata in città prima del 1468. All’inizio del ‘500 comunque i “raffinadori de zucharo” erano tanto numerosi da costituire un’arte che rientrava in quella degli “Spezieri da Grosso”. La maggiore disponibilità di zucchero sul mercato veneziano ne favorì l’uso come dolcificante comune, in sostituzione del miele, pur restando lo zucchero sempre piuttosto costoso se, come riporta il Molmenti, nel 1547 in occasione di un banchetto offerto a Enrico III di Polonia nella sala del Maggior Consiglio di Palazzo Ducale, per dimostrare la sua ricchezza, la Repubblica fece disporre in tavola per tutti i commensali pane, piatti e posate confezionati a stampo con purissimo zucchero bianco. Nel XVII secolo lo zucchero veneziano dovette soffrire molto la concorrenza di quello prodotto in Spagna e Inghilterra dalla canna americana; comunque nel secolo successivo persistevano in città sette “officine”. La raffinazione è documentata almeno sino al 1824, dopodiché la coltivazione della barbabietola comportò una totale innovazione nella produzione industriale dello zucchero, stravolgendo il mercato europeo della canna.

A chiara testimonianza di luoghi ove si raffinava zucchero a Venezia si trovano ancora toponimi parlanti (purtroppo non nell’originale lingua veneziana, ma italianizzati da imbianchini “foresti” che operano senza controllo comunale) nei sestieri di:

  • Cannaregio: Corte raffineria (civici 2603-2611); Calle della Raffineria (2511-2695)
  • San Polo: Corte Raffineria (1902-1906) (fig.6); Calle Raffineria (1907-1908)
  • Dorsoduro: Calle dello zucchero (404-405 e 411-415); Sotoportego e Corte dello zucchero (2365 A-2646).
Fig.5: Uno dei numerosi toponimi (verso la fine di Calle Lunga San Barnaba) che testimoniano di un luogo dove anticamente si raffinava lo zucchero (Foto L. Lazzarini).

E’ interessante notare che in Oriente, come anche nelle Americhe la raffinazione dello zucchero di canna con la produzione di pani continuò più a lungo che in Europa, in molti paesi del centro e sud America continua tuttora. Al proposito ricordo che nel 1990, nel corso di un mio viaggio di studio a Persepoli, ebbi occasione di vedere nel bazar della vicina Shiraz una bottega di spezie con in bella mostra dei pani di zucchero del peso di tre chili in vendita per l’equivalente di circa duemila lire: non fosse stato per il peso ne avrei portato uno a Venezia, e ora l’avrei donato volentieri al proposto (si spera costituendo) museo della città sopra la pescheria realtina, magari mettendolo vicino a delle forme e cantarelli veneziani. Tito Canal ci avrebbe senz’altro fatto avere esempi di quest’ultimi, e di molti altri materiali testimonianti l’antico, ricchissimo, artigianato veneziano. Purtroppo è venuto a mancare due anni fa, prima che si iniziasse a parlare di questa iniziativa, ma sono sicuro che l’avrebbe sostenuta con tutte le sue forze, dando un contributo fondamentale con la sue conoscenze storico-archeologiche di cui ci ha lasciato testimonianza insostituibile nel suo volume “Archeologia della laguna di Venezia” (Cierre Edizioni, Caselle di Sommacampagna, VR, 2013). Nelle 500 pagine di questo utilissimo libro, dopo una prima parte di carattere introduttivo dove è trattata la genesi e l’evoluzione fisica della laguna nel corso dei secoli, ne viene delineata la sua storia per l’epoca romana (che la laguna sia stata abitata in età imperiale è la scoperta principale di Tito, di cui andava molto fiero) e medievale; quindi sono raccolti sotto forma di schede i risultati delle indagini e rilevamenti di ben 175 siti lagunari, i cui più importanti materiali vengono elencati e ulteriormente studiati nell’ultima parte del volume. Questo è stato per davvero il libro di una vita, che contiene un’incredibile quantità di informazioni sui più vari aspetti storico-archeologici-naturalistici della laguna che senza il lavoro di Tito in grandissima parte sarebbe andate irrimediabilmente perdute per le trasformazioni antropiche da essa subite negli ultimi cinquant’anni.

Tito è stato un conoscitore impareggiabile della laguna veneta tanto da divenire, tra l’altro, uno dei consulenti principali del Consorzio Venezia Nuova, e ha dedicato la sua lunga vita, sacrificando tutto, anche gli affetti, all’esplorazione archeologica e conoscenza degli ambienti lagunari. Si muoveva tra acque e barene molto meglio che in terraferma: io ogni tanto lo prendevo in giro dicendogli che non era un essere terrestre, ma anfibio. La sua straordinaria passione, e propensione per le ricerche, colpivano tutti coloro che l’hanno conosciuto, e che, come me, spesso si sono fatti coinvolgere in collaborazioni pluriennali: pubblicammo assieme un corposo numero di ceramiche bizantine da lui rinvenute in laguna, tuttora il nucleo più ricco di questa tipologia fittile mai rinvenuto in Italia.

Tito Canal era un autodidatta globale, documentatissimo e curioso dei vari aspetti legati alle ricerche archeologiche sul campo e in laboratorio. Negli scavi di emergenza che talvolta eseguì tra “barene e ghebi” (in decenni del secolo scorso in cui la soprintendenza competente non aveva né mezzi, né esperienza “lagunare” specifica), sapeva scavare stratigraficamente (per quanto possibile in ambienti dove acqua e fango rendevano quest’operazione difficilissima), rilevare usando stazioni topografiche; in terra utilizzava cercametalli e magnetometri…Dati archeologici importanti sono stati da lui registrati in tantissime aree, come quella della Cura, o di San Leonardo in Fossa Mala prima che venissero irrimediabilmente manomesse o addirittura distrutte per sempre, come la seconda dallo scavo del Canale di Petroli. Materiali che venivano messi in luce da maree eccezionali, e che sarebbero stati irrimediabilmente danneggiati dopo poco tempo per cristallizzazione salina, sono stati da lui recuperati e assicurati a futuri studi. Un reperto archeologico egli lo considerava anche dal punto di vista archeometrico: per questo si era acquistato uno stereomicroscopio e, per studiare le sabbie dei paleo-alvei dei fiumi che interessarono anticamente la laguna, un microscopio da mineralogia (che gli insegnai ad usare, e che mi ha lasciato in eredità). Pagava di tasca propria analisi radiometriche al Carbonio 14 per datare legni e sostanze organiche, ed era in contatto tanto con esperti ufficiali della laguna come l’amico Gabriele Conchetto del Magistrato alle Acque, quanto con scienziati internazionali, specie per la soluzione di problemi paleoclimatici. Tito era una persona generosissima sia intellettualmente che materialmente. Mise sempre a disposizione di tutti, ancor prima di pubblicarli lui stesso, gli esiti delle sue ricerche che spesso furono alla base di studi fondamentali sull’evoluzione fisica e la storia, archeologica e non, della laguna. Basti citare tra i primi, quelli di molti geologi e oceanografi del Centro per lo Studio della Dinamica delle Grandi Masse del CNR già con sede a Palazzo Papadopoli e, tra i secondi, i volumi di Wladimiro Dorigo sulle origini di Venezia e il Duecento. I copiosissimi materiali da lui recuperati nelle sue pluridecennali ricerche lagunari sono sempre stati a disposizione degli studiosi, italiani e non, interessati a Venezia. Essi hanno riempito svariate casse ora depositate al Lazzaretto Nuovo, e si spera possano  essere messi a disposizione non sono del costituendo museo archeologico della laguna nel Lazzaretto Vecchio, ma anche del museo-centro studi realtino: questi materiali servirebbero tra l’altro, a costituire un fondo il cui studio sistematico porterebbe a ricostruire oltre che la storia del commercio veneziano nei secoli, anche la vita quotidiana dei veneziani dalle origini della città sino alla caduta della Repubblica, come nient’altro potrebbe consentire di fare, né la storia scritta, né la grande arte dipinta o scolpita.  


* Ernesto Canal è stato ispettore per le antichità della Laguna di Venezia: per oltre cinquant’anni ha coniugato nelle sue ricerche approccio archeologico, antropologico ed ecologico circa questo territorio. I suoi studi sono sfociati nell’ opera monumentale: Archeologia della Laguna di Venezia, 1960-2010, Verona Cierre ed. 2013.

** Lorenzo Lazzarini dopo aver insegnato a Roma La Sapienza e a Ca’ Foscari,  è stato professore ordinario di Petrografia Applicata all’Università IUAV di Venezia, dove ha creato e diretto per 20 anni il LAMA (Laboratorio di Analisi dei Materiali Antichi). E’ membro di comitati internazionali per lo studio della pietra e di marmi antichi, tema del quale è considerato una vera autorità; consulente dell’Unesco, della Banca Mondiale, dell’ICCROM, ha pubblicato moltissimo in materia di petrografia applicata, di geo-archeologia, di conservazione di marmi bianchi e colorati, di restauro dei dipinti, di ceramiche protostoriche siriane. Suoi studi recenti hanno riguardato la caratterizzazione chimico-fisica dei materiali lapidei usati oltre che nei principali monumenti veneziani, nei principali centri dell’ area mediterranea. E’ membro del ‘Comitato Scientifico della Associazione Progetto Rialto.


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