CONTRIBUTI

1442, RIALTO VISTO DAL MERCANTE FIORENTINO E POETA JACOPO D’ALBIZZOTTO GUIDI*

nota di Donatella Calabi

Nella vivace descrizione in versi che Jacopo D’Albizzotto Guidi fa di Venezia il 20 maggio 1442, egli afferma che “a seguire” la sua volontà gli “convien capitare” su Rialto. Qui egli segue un percorso preciso e racconta quello che vede sotto i suoi occhi quando scende dal Ponte che chiunque deve passare, a meno che non voglia fare un enorme salto, per valicare il Canal Grande. La prima notazione è per i materiali da costruzione: il ponte non è realizzato in modo approssimativo come spesso sono le cinte fortificate, ma in legno particolarmente “ben lavorato”. Alla destra sta una bella loggia di marmo e legno dove erano soliti riunirsi i nobili mercanti (cavalieri, conti e marchesi).

Jacopo De’ Barbari, Veduta prospettica della città, 1500: dettaglio con l’area realtina.

Oltre che dai documenti d’archivio, facciamoci accompagnare in questo itinerario dalla veduta di Jacopo de’ Barbari, successiva di poco più di una cinquantina d’anni: vediamo con chiarezza gli spazi che il poeta percorre, animati da una folla variegata di persone e di botteghe, ma anche fisicamente articolati e collegati tra loro. Oltrepassato il luogo dove si riducono i “gentili”, c’è chi gioca a dadi o a carte e, subito dopo, il portico sotto al quale stanno i banchi di scritta: siamo cioè in uno dei lati del campo di San Giacomo, per immaginare il quale ci viene in aiuto un’altra bella immagine: il San Matteo di Vittore Carpaccio nella Scuola dalmata di San Giorgio degli Schiavoni (1502). L’evangelista, protettore dei banchieri, è posto davanti al suo modesto banchetto, semplicemente coperto da un tappeto sul quale mostra il denaro, prova della sua credibilità.

Vittore Carpaccio, Vocazione di San Matteo, sulla sinistra appare un banco di cambiavalute, dipinto nella Scuola dalmata di San Giorgio degli Schiavoni, Venezia 1500 ca.

A questo punto il Guidi sembra allontanarsi un po’ dal centro dell’insula per giungere alla pescheria, così piena di pesci d’ogni sorta che non è possibile per lui non riandare col pensiero anche alla geografia della laguna, cioè alle ricchissime valli da pesca che la caratterizzano. Continuando poi il suo percorso lungo la riva egli  giunge all’area di vendita della frutta fresca e secca, sempre presente d’inverno come d’estate, e poi a quella dei polli e della selvaggina.

Con questo passaggio il poeta ci conferma quanto sappiamo per via documentaria, e cioè che solo a partire dal 1459 sarà realizzata per volere del Senato una Pescheria Nuova, spostata rispetto al centro delle banche e all’incontro dei grandi mercanti, in modo da tenerli lontani dal “fetore” dei pesci, cosa “molestissima” soprattutto nel clima estivo: insomma nel 1442 quando il poeta scriveva i grandi tentativi di riordino dell’area che si sono succeduti fino alla fine del secolo XV ancora non erano nemmeno iniziati.

Di qui egli arriva alla zona delle osterie e taverne frequentate dai forestieri e, a sinistra, per una calle non rettilinea, alla panetteria e alla vendita di salsicce, di pesce salato importato da lontano, ai fabbricanti di sapone, ai barbieri, ai cavadenti, ai calegheri (calzolai) e, finalmente, alla beccheria e al macello (localizzati più o meno dove si trovano ancora il campo e il rio che da queste attività prendono il nome). Ma poco oltre, e non certo nettamente separate, le botteghe artigiane di chi produce corde, calzature, panni, vestiti, pellicce da uomo e da donna, di chi carda la lana, o lavora la seta, le strazzarie (mercanti di oggetti di seconda mano); di chi ha dei dipendenti e di chi fa lavorare in bottega i propri figli.

Il Guidi decide inoltre di far sapere che a Venezia c’è un gran numero di orefici che lavorano l’argento notte e giorno, veneziani in parte, in parte d’altra provenienza. E poi chi fa bottoni, chi pantofole, chi produce tazze, chi cucchiai, forchette e taglienti coltelli, o ancora dolci e “confetti” destinati soprattutto agli stranieri.

Egli è sicuramente affascinato dalla commistione e dalla vicinanza tra chi produce e chi scambia, tra artigiani e bottegai, tra chi è originario del luogo e chi viene da fuori, i quali tutti insieme costituiscono la vera ricchezza del mercato.

Lasciando tutti questi e i molti che stanno dall’altro lato, l’autore transita per una via di “maggior tesoro”, della quale ancora non ha detto (evidentemente egli sta tornando verso la Ruga degli Oresi), dove incontra chi lavora l’oro, anelli con perle e zaffiri abilmente legati, chi produce gioielli costosissimi tagliando  pietre preziose (rubini, turchesi e diamanti), al punto che non esiste altra città al mondo nella quale si possa trovare un numero comparabile di gioie concentrate in un’unica via.

Ma distratto dalla meraviglia per tali tesori, il poeta si accorge di aver interrotto la sua narrazione relativa agli artefici: perché vi è anche – per dire la verità all’esterno dell’isola del mercato, ma ad esso molto legata – un luogo chiamato Piscina (che corrisponde all’attuale Calle di Botteri) dove chi realizza le botti lo fa non solo durante il giorno, ma anche di notte. E poi, passando da un’arte a una completamente diversa, egli appare stupito nei confronti di una competenza “peregrina” come quella dei ricamatori, che usano fili di molti colori; e ancora agli abili venditori di panni nella Drapperia, che per la strada mostrano ai passanti tutti, nobili e cittadini, la loro merce e le possibili rifiniture, così che chiunque può soddisfare qualunque suo desiderio.

Ma poi, tornando verso il Ponte, incontra anche funzioni più tristi: gli uffici – in quello che oggi chiamiamo Palazzo dei Camerlenghi e che era allora, come ce lo mostra il De’ Barbari, un edificio tripartito – con la Camera delle imposizioni e quella degli Imprestiti.

Lascia un commento

avatar
  Subscribe  
Notificami